Cosa cerca l’uomo attraverso la creazione artistica? L’arte dovrebbe imitare la natura? Può discostarsene? È necessariamente bello? La bellezza è soggettiva o universale? L’artista dovrebbe rappresentare i suoi pensieri o i suoi sentimenti?
L’arte è sempre stata strettamente legata alla filosofia e alcuni grandi pensatori hanno avuto un’influenza duratura sulla creazione. Il collezionista moderno offre un rapido tour delle principali pietre miliari dell’estetica.
Preambolo
L’estetica (dal greco aisthètikos, percezione attraverso i sensi) divenne una disciplina filosofica solo nel 1750, sotto l’impulso del filosofo tedesco Alexander Baumgarten. Ma le questioni sollevate dalla creazione e dalla percezione estetica erano già discusse nell’antichità.
Il nostro desiderio di sintesi ci costringe a tralasciare collaboratori importanti, ma questa presentazione non può essere esaustiva. Invitiamo i nostri lettori più curiosi a visitare il sito di Jacques Darriulat, che fu docente alla Sorbona di estetica e filosofia dell’arte.
PLATONE (c. -428/-348) Ciò che è buono è bello
Per Platone, il primo teorico della bellezza, l’arte umana deve essere la rappresentazione sensibile di un’idea. Deve essere ispirato dalla natura, frutto dell’arte divina, e dare un’immagine mimetica ed eloquente. È l’equilibrio delle proporzioni che definisce l’essenza della bellezza.
Il pensiero platonico, che trovò estensioni nella tarda antichità e nel cristianesimo, prima di essere riscoperto nel Rinascimento, consacrò il regno di un’arte basata sull’idea. L’essenza della bellezza sta nell’intelligibile.
“Tutto ciò che è nel regno dell’arte fa parte della misura” (Il Politico)
Immanuel KANT (1724-1804) La bellezza come sentimento
Kant è stato il primo filosofo a tentare di analizzare il sentimento della bellezza, pur ammettendo che la meraviglia è un affetto immediato e soggettivo che non richiede alcuna dimostrazione per nascere.
Tra le diverse “qualità” del sentimento del bello, Kant cita il grado di presenza dell’oggetto: l’emozione estetica è una “impressione”, un giudizio riflessivo, che si riferisce al soggetto stesso piuttosto che all’oggetto, e che permette il dispiegarsi di un “sentimento vitale” universale.
A differenza del piacevole o del buono, la particolarità del sentimento del bello è che è disinteressato: non ha altro fine che la pura contemplazione, un sentimento attivo ed euforico che nutre la comprensione.
“Ciò che è bello è ciò che è universalmente piacevole senza concetto” (Critica della facoltà di giudizio)
Edmund BURKE (1729-1797) La bellezza del caos
Nel 1757, Edmund Burke introdusse una distinzione tra l’estetica del bello e quella del ‘sublime’, un’emozione legata alla passione e al pathos che resiste ai giochi della pura ragione e della comprensione. Burke definisce un’impressione soggettiva, uno shock fisiologico provocato dall’indistinto e dall’infinito. Si impone come un sogno ed evoca il caos, attirandoci verso il nulla per ricordarci meglio la vita.
L’estetica del sublime è guidata da un istinto di autoconservazione, alimentato da un meccanismo di sostituzione o empatia che ci permette di indulgere nello spettacolo dell’orrore e del terrore.
“La poesia è l’arte di sostanziare le ombre e di prestare l’esistenza al nulla” (Memoir of the life and character of Edmund Burke di James Prior)
Georg Wilhelm Friedrich HEGEL (1770-1831) Il senso spiritualizzato
Hegel vede l’arte come un compromesso tra la sensibilità e l’assoluto. Un’opera d’arte non può avere come unico scopo quello di suscitare dei sentimenti, perché questi rimangono “avvolti nella forma più astratta della soggettività individuale”. Né è destinato alla perfezione morale, perché l’arte sarebbe allora solo un mezzo, non un fine.
Ispirata dalla filosofia cristiana, l’Estetica di Hegel è offerta ai sensi, ma è essenzialmente destinata alla mente. Rivela una verità che sfugge alla comprensione: la rappresentazione sensibile dell’assoluto.
L’opera d’arte sarebbe così una manifestazione del divino (o “un assoluto”, “una verità”, “lo Spirito”…) che avverrebbe attraverso la mediazione dell’uomo creatore. Permetterebbe allo spirito umano di prendere coscienza di se stesso.
L’opera d’arte è “una domanda, un’apostrofe, rivolta a un cuore che le risponde, una chiamata all’anima e allo spirito” (Introduzione all’estetica)
Friedrich NIETZSCHE (1844-1900) L’arte come affermazione vitale
Per Nietzsche, l’arte è l’attività metafisica per eccellenza. Essa sola permette di rivelare la dimensione tragica dell’esistenza. L’artista trascende i suoi limiti e entra in comunione con il mondo naturale.
L’estetica nietzschiana è un fenomeno fisiologico: per lui, il corpo è più spirituale della mente. E poiché la sensibilità artistica è intuitiva, la conoscenza che genera non può essere concettualizzata; è necessariamente intuitiva.
Nietzsche vede l’arte come una dualità: l'”apollineo” è espressione dell’individuo, della misura e della perfezione, mentre il “dionisiaco” è un caos in cui il soggetto si dimentica e si dissolve. Il creatore deve pagare con la propria carne per abolire la sua soggettività, perché la coscienza non è capace di farlo.
“Ritengo che l’arte sia il compito supremo e l’attività propriamente metafisica di questa vita” (La nascita della tragedia)
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